Alla ricerca dell’impronta carbonica delle aziende
Per decenni, la misurazione delle emissioni di anidride carbonica (CO₂) è stata appannaggio di scienziati e specialisti. Oggi, è un obbligo per le imprese, un parametro di riferimento per i governi e un terreno di scontro politico. Nel momento in cui le politiche climatiche si trovano sotto una lente d’ingrandimento sempre più potente, il ruolo della misurazione della CO₂ è diventato tanto più centrale quanto più controverso: tecnicamente affinato, ampiamente adottato, ma anche sempre più politicizzato e, in alcuni casi, aggirato strategicamente.
La misurazione della CO₂ nasce come impresa scientifica. Nel 1958, Charles Keeling iniziò a registrare la concentrazione atmosferica di CO₂ dall’Osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, dando vita alla celebre Curva di Keeling, una delle evidenze più chiare dell’impatto crescente dell’uomo sull’atmosfera. Da questa ricerca osservazionale si è evoluto un metodo che oggi rappresenta una pietra miliare della governance climatica. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, seguita dal Protocollo di Kyoto e dall’Accordo di Parigi, ha formalizzato l’obbligo di contabilizzare le emissioni a livello internazionale. Nel tempo, i Paesi sono stati chiamati a redigere e rendicontare i propri dati, poi sono state coinvolte le imprese.
Oggi si richiede alle aziende non solo di ridurre le emissioni, ma di misurarle con cura e in modo sistematico, secondo protocolli standardizzati. Ma queste misurazioni sono tutt’altro che semplici. Le emissioni si dividono in “scope”: le emissioni dirette da fonti possedute o controllate (Scope 1), quelle indirette derivanti dall’energia acquistata (Scope 2) e tutte le altre emissioni indirette lungo la catena del valore (Scope 3). Quest’ultimo ambito può rappresentare oltre il 70% dell’impronta di un’azienda, ma è anche il più complesso da quantificare.
Per effettuare tali misurazioni, le aziende utilizzano diversi strumenti. Alcune installano sistemi di monitoraggio continuo delle emissioni direttamente su camini e impianti produttivi. Altre adottano una contabilità basata sulle attività, impiegando dati come il consumo di carburante o la produzione e incrociandoli con fattori di emissione standardizzati pubblicati dall’IPCC, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici. Satelliti e modelli di telerilevamento offrono una visione d’insieme indipendente su vaste aree, anche se con limiti di risoluzione e accuratezza. Software dedicati, spesso allineati al Greenhouse Gas Protocol o agli standard ISO 14064, organizzano la complessità, ma dipendono dalla qualità delle informazioni che le aziende sono in grado o disposte a fornire.
Quel che era nato come metodo per comprendere i cambiamenti climatici si è trasformato in un obbligo normativo. In Europa, questa evoluzione è particolarmente avanzata. Il sistema di scambio delle emissioni dell’UE, inaugurato nel 2005, ha introdotto un approccio di mercato per la riduzione delle emissioni, con tetti massimi e prezzi. Più recentemente, il Green Deal europeo ha portato una serie di nuove regole, tra cui la Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità aziendale, nota come CSRD, che obbliga migliaia di aziende a rendere pubbliche le proprie emissioni, e il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, che impone agli importatori di pagare un prezzo sul carbonio equivalente a quello applicato nell’UE. Queste normative rappresentano il livello più elevato di integrazione tra politica ambientale e pianificazione economica al mondo.
Ma il vento politico sta cambiando. L’argomento ricorrente è noto: standard di rendicontazione troppo complessi gravano sulle aziende, minano la competitività e distolgono risorse dall’innovazione. In questo contesto, la Commissione europea sta attualmente sviluppando uno standard volontario di rendicontazione della sostenibilità (incluse le emissioni climalteranti) rivolto alle piccole e medie imprese, chiamato VSME. Oggi visto come risposta all’importante ridimensionamento previsto nel pacchetto Omnibus, andrebbe a interessare l’enorme numero di imprese non contemplate dalla nuova normativa. Questo intervento, in origine, era stato concepito per facilitare l’adozione di pratiche di misurazione e trasparenza ambientale in un segmento imprenditoriale tradizionalmente meno regolamentato, bilanciando le esigenze di semplificazione con la necessità di integrare la sostenibilità nella strategia aziendale. L’approvazione e l’applicazione di questo standard sono attualmente proiettate a metà 2026.
La medesima tendenza al rallentamento si riscontra anche fuori dall’Europa. Negli Stati Uniti, le normative ambientali si sono polarizzate politicamente. Con il secondo mandato presidenziale di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno formalmente iniziato a smantellare le principali tutele climatiche federali. Il primo atto è stato l’Ordine esecutivo 14162, che ha ordinato il ritiro immediato dall’Accordo di Parigi.
Ad aumentare la tensione c’è il paradosso delle emissioni in tempo di guerra. Mentre i Paesi invitano cittadini e imprese a ridurre la propria impronta carbonica, conflitti come quelli in Ucraina, Gaza e Iran generano emissioni su larga scala, in gran parte non conteggiate nei bilanci ufficiali.
Le aziende si trovano così in una contraddizione. Da un lato, sono obbligate a investire in sistemi di contabilizzazione, a rendere trasparente la loro impronta e a rispondere alle pressioni degli azionisti. Dall’altro, affrontano crescente incertezza sul fatto che la struttura regolatoria possa tenere, mutare o dissolversi. Di fronte a governi che riconsiderano le regole climatiche sotto la pressione economica e geopolitica, molte imprese mantengono i sistemi di misurazione non solo per conformità, ma per gestire i rischi, rassicurare gli investitori e pianificare a lungo termine.
È evidente come la misurazione della CO₂ sia diventata qualcosa di più di un semplice dato scientifico: è ora un indicatore di intenti strategici, impegni politici e, in alcuni casi, di contraddizioni diplomatiche. Siamo al crocevia tra precisione e ambiguità, tra ambizione e arretramento.